• Italiano
  • English
  • EN/IT
    The Blank Board | Intervista a Marco Grimaldi
    The Blank Board | Intervista a Marco Grimaldi
    [=== The === Blank === Board ==== Intervista === a ==== Marco = Grimaldi ===]



        [== LINK ==]

     

    photo @ Maria Zanchi

    photo @ Maria Zanchi

     

    photo @ Maria Zanchi

    photo @ Maria Zanchi

     

    photo @ Maria Zanchi

    photo @ Maria Zanchi

     

    photo @ Maria Zanchi

    photo @ Maria Zanchi

     

    photo @ Maria Zanchi

    photo @ Maria Zanchi

     

    photo @ Maria Zanchi

    photo @ Maria Zanchi

     

    photo @ Maria Zanchi

    photo @ Maria Zanchi

    In occasione di ARTDATE 2014,

    Marco Grimaldi aprirà il suo studio

    Domenica 18 Maggio 2014, dalle 15.00 alle 17.00

    Via Cervino 2, Seriate

    THE BLANK BOARD

    Un progetto a cura di Elsa Barbieri e Maria Zanchi.

    Intervista di Elsa Barbieri

    Foto di Maria Zanchi

     

    Marco, quando hai deciso di diventare un pittore?

    Ho sempre saputo di volerlo fare. Ho frequentato il liceo artistico a Bergamo ma in quegli anni non avevo grandi interessi. Dopo la maturità ho deciso di allontanarmi, di spostarmi e mi sono iscritto all’Accademia di Brera. Lì, dove non mi conosceva nessuno ho iniziato a studiare e lavorare da pazzi. Mi dicevano tutti che avrei dovuto fare il pittore. Alla fine l’ho fatto, era quello che mi piaceva. Probabilmente se non avessi fatto il pittore avrei fatto un lavoro completamente diverso. Quando ho scelto l’accademia il mio unico interesse era la pittura.

    Che pittore sei?

    Sono un pittore che per formazione non ha una linea precisa, mi piace molto spaziare sulle cose. Essendomi formato negli anni ’80 non poteva che essere così. Ho iniziato l’accademia nel 1985, negli anni dell’eclettismo, della contaminazione, della deriva culturale. Queste tendenze le ho vissute, le ho sentite… e i pittori che maggiormente mi hanno influenzato hanno queste caratteristiche. Sono quegli artisti che puoi trovare nelle esposizioni figurative ma anche in quelle astratte. Non riesci a classificarli eppure hanno una continuità interiore che li rende riconoscibili tra mille. Non mi sento affatto un loro successore, per me rappresentano un punto di partenza da cui poi ho preso la mia strada.

    Che cosa mi dici di questa strada?

    Quando mi chiedono di scrivere dei miei lavori io dico sempre che l’importante per me è riuscire a unire i punti cardinali del quadro. Che cosa significa?… Non penso di certo all’unione geografica dei punti, alludo piuttosto a riuscire, con dei segni o dei colori, a unire il tutto, a dare tensione a tutti i lati: solo così il quadro prende vita e diventa anima pulsante.

    Cosa rappresenta per te il quadro?

    Per me un quadro è un quadro. Non è che non mi piaccia la pittura figurativa però ormai di fronte a qualsiasi cosa la preoccupazione maggiore è che cosa sia, che cosa rappresenti. Per me invece non è così. Di fronte a un quadro la prima cosa che si fa notare è la sua struttura architettonica, che ha già la sua valenza. La sua forma, il suo spessore sono già di per sé elementi che devono far riflettere. Il rapporto che un lavoro dovrebbe avere con lo spazio circostante determina già il fatto che quello che mi interessa è l’insieme che dà forza all’architettura del quadro. Partendo da questa struttura cerco di dare vita a uno spazio tracciando delle righe, è una delle sfide che mi smuovono maggiormente.

    Rischi, accetti le sfide.

    Si. Non ho alcun problema a dipingere e disegnare, sono trent’anni ormai che lo faccio. Cerco sempre di farlo con la testa libera però. Perché il bello del dipingere è trovarsi alla fine di un lavoro e poter esclamare “però, niente male!”. Se stai troppo attento rischi di non iniziare nemmeno. È importante lasciarsi andare, partire, con la testa che ormai ha sedimentato e la mano capace di muoversi da sola. La mancanza di riposte sicure, il dubbio continuo di fronte al lavoro, è sicuramente la sfida più bella nella pittura. Non solo per il pubblico ma anche e soprattutto per l’artista.. per me. Alla fine dei miei lavori io sono sempre molto deluso, poi però quando li riguardo, a mente fredda, mi accorgo se può funzionare.

    Come nascono i tuoi lavori?

    Non sono un pittore espressionista che ha bisogno dell’urgenza dell’ispirazione anzi, per me ogni momento ha la sua urgenza. È fondamentale per me capire dove voglio dirigermi. Finché non lo so non lavoro, poi quando capisco il problema porto avanti la mia analisi con molta regolarità e senza pianificare l’esito a priori. L’importante per me è essere consapevole della struttura che voglio ottenere.

    Parli di problemi, di analisi, di metodo. Di quali strumenti ti servi?

    Il disegno innanzitutto… e poi la luce e la sua modulazione. È con il disegno e con la luce che io costruisco. Del resto, sono un pittore che lavora sulla luce. Nei miei lavori più vecchi la luce era data da un passaggio, da un segno espressivo molto forte, che graffiava.

    Dimmi di più di questo segno.

    Il segno.. il disegno… è un aspetto molto importante per me. In passato per arrivare all’essenza del problema non riuscivo a restare fermo senza fare nulla in attesa di qualche ispirazione. Così ho iniziato a fare disegni. Avvertivo il bisogno di scaricare la mia energia ma di dovermi riscaldare per poterlo fare. Ogni giorno venivo in studio e facevo dieci, venti, di questi disegni fino a quando non mi sentivo calato nel problema. Era un vero e proprio esercizio di movimento e di sensazione. Quando poi mi sentivo carico andavo davanti alle grandi tele e davo dei colpi. Dopodiché mi fermavo e me ne andavo… tornavo il giorno dopo e riprendevo il mio esercizio.

    Che ne è di questi disegni?

    Tutti questi disegni sono studi che poi diventano quadri. Sono confluiti anche in un’installazione, Scale, che avevo montato per una mia mostra personale, Habitat, a Seriate. L’idea mi era venuta un giorno, quando ho deciso di montarli su muro dopo un periodo in cui li lasciavo sparsi per terra sul pavimento del mio studio. Tutt’oggi li conservo, sono almeno 150, e ancora oggi quando faccio degli studi li conservo insieme agli altri, come un mio diario di disegno. Costituiscono una parte di me intima, personale e significativa, che si riflette in un work in progress senza fine.

    Mi hai parlato dell’esercizio del disegno al passato. Perché, che cosa è cambiato?

    Ad un certo punto c’è stata la svolta e ho cercato di costruire minimizzando il gesto. Quando ho iniziato la serie di Habitat ho cercato di eliminare il disegno che solcava la tela, ho indebolito il passaggio della mano per rendere all’osservatore la percezione di un lavoro che prende vita da solo. Per farlo sfrutto le potenzialità della luce, grazie alle quali mi è possibile costruire e modulare la struttura del quadro.

    E adesso? Cosa fai? Come lavori?

    Ho un libro in cui continuo ad annotare tutti i miei appunti, gli studi, i particolari di luce, a volte anche insignificanti. Li faccio e li metto via, poi torno a osservarli, anche a più riprese, ed è allora che entrano nella rielaborazione delle mie tele. Partire dal disegno fa sempre parte del mio gioco. Anche se adesso mi accorgo di disegnare sul lavoro stesso, realizzando direttamente sulla tela quello che ricerco. Se prima mi era necessario un esercizio per rintracciare l’essenza di un segno, oggi preferisco scavare sul momento, modificarlo.

    Inevitabilmente cambia la lavorazione.

    Esattamente. I quadri frutto dell’esercizio preparatorio si caratterizzano per essere stati eseguiti molto velocemente. Mi esercitavo a ritmo serrato su un particolare aspetto e poi, quando trovavo la soluzione, intervenivo sulla tela con colpi veloci e decisi. I lavori di adesso invece mi richiedono molto più tempo in termini di lavorazione mentale, di attesa, di analisi e di ricerca. La difficoltà maggiore consiste nel non rendere mai banale una composizione che in realtà nasce da elementi banali… righe, scacchiere…

    18 metri di Habitat, per esempio. Me ne vuoi parlare?

    È un lavoro elementare, non è altro che alternanza di positivo e negativo. Ho voluto tenerlo il più elementare possibile proprio per poter lavorare sul concetto. La sfida è lavorare sull’elementare, non cercare l’impensabile. Realizzarlo è stato come tessere una tela, ogni giorno tracciavo quattro, cinque righe. Poi smettevo e il giorno seguente ricominciavo rielaborandole o con nuove righe.

    È un quadro di grandi dimensioni, come la maggior parte dei tuoi lavori. Perché?

    È vero, sono tre moduli da sei metri ciascuno. È il lavoro che chiude la serie Habitat e benché la dimensione renda difficile l’esposizione, per me è un lavoro inseparabile. È nato come un trittico, separarlo significherebbe interrompere il dialogo. Per me una tela da 2×1.60 metri è una misura standard, come potrebbe essere per altri un foglio da 50×70 cm… Capisci quindi che lavorare con le grandi dimensioni fa parte di me, l’ho sempre fatto. Forse per un fatto di cultura e di formazione. Quando ero giovane e andavo a vedere le mostre vedevo solo quadri enormi. Il presupposto da cui sono partito dunque è che il quadro dovesse essere enorme. Ma non è vero… Semplicemente la dimensione grande mi fa sentire molto più libero. Le tele piccole, che amo perché rappresentano una conquista tecnica per me, mi creano ansia. Richiedono un lavoro di cesellatura e di concentrazione, devo capire lo spazio, prendere le misure, modulare il movimento della mano… tutte operazioni che mi rendono difficile lavorare in piccolo.

    A cosa stai lavorando adesso?

    Ho ultimato da poco un lavoro a cui mi sono dedicato per tutto l’inverno appena trascorso. È un lavoro completamente nuovo. L’ispirazione mi è venuta in un bar, dove ho visto un poster di New York pieno di luci che sembravano brillantini. Allora l’ho fotografato e poi in studio l’ho rielaborato. Come nei miei lavori precedenti il gioco è sempre lo stesso, provare a dare la percezione di una parete di un palazzo illuminato con le lampadine che rompono la scacchiera. Non a caso il modulo di partenza sembra proprio farsi di tanti occhielli di luce che muovono la composizione. Da studente, mi ricordo, ogni volta che passavo davanti alla Torre Velasca di Milano mi sentivo perso di fronte alla totale mancanza di ordine nella disposizione delle finestre. Provavo a dargli un mio ritmo ma non la verità è che non esisteva, dunque era invisibile e inimmaginabile. Quando lavoro mi torna in mente spesso questo aneddoto.

    Come mai? Che rapporto c’è con il tuo lavoro?

    Io lavoro soprattutto con la luce. Mi piace studiarne le infinite possibili variazioni per poi sfruttarle e modulare nuovi spazi. Anche se può affiorare un riferimento legato a un’immagine, come accade nell’ultimo lavoro, ciò che più mi interessa sono le potenzialità della luce e le variazioni di colore, non la formella o lo spiritello. Spesso mi si chiede cosa rappresenti il segno dei miei quadri ma per me rappresenta esattamente quello che si vede, cioè la composizione di una forma che si muove nello spazio. Questa è una cosa che sta dentro di me, mi piace guardare un corpo qualsiasi che si muove nella penombra, che viene avanti. Ti guardo mentre riposi, per esempio, è un lavoro molto grande che ha questa caratteristica. Non sono affatto due persone dormienti, sono invece due movimenti di testa che io sento nel momento del sonno di un corpo, di una mente, di qualsiasi cosa.

    Torniamo al tuo ultimo lavoro. Raccontami qualcosa di più.

    Nasce dalle lastre di una risonanza magnetica a un ginocchio. Le ho lasciate attaccate al vetro per molto tempo perché mi sembravano cose banali. Il rischio era copiarle e fare anatomia, cosa che a me non interessava. Non ero attratto dalla lastra in sé e non volevo semplicemente fare una copia della cosa. Avevo piuttosto bisogno che si trasformasse in altro, volevo una composizione serrata. Per sperimentare la variazione ho fatto molto uso della luce e del colore. Sembrano molto black ma, ci tengo a specificarlo, io ho usato variazioni di nero, non il nero. Solo così sono riuscito a ottenere delle modulazioni dello spazio che rendono il lavoro diverso sia dal punto di vista di chi guarda che da quello di chi lo fa. Nel primo lavoro per esempio ho usato un nero pece sporcato di viola, nell’ultimo ho ripassato il nero con il colore blu. È una questione di pura grammatica pittorica, si tratta di usare colori che conducono in uno spazio oscuro, come il nero ma più morbido, da cui sono riuscito a far emergere la luce. Anche perché ho iniziato a rielaborare il modulo per gioco, senza conoscere l’esito, tracciando righe, cancellandole, muovendole, nel tentativo di mostrare la ripetizione variabile della cosa.

    Che cosa intendi per ripetizione variabile?

    La ripetizione fa parte della mia pratica artistica. Un gesto, un segno, per me possono essere continuamente ripetuti. Ma questi non saranno mai identici, saranno sempre diversi. Dal punto di vista del fare artistico io dipingo sempre con la stessa tecnica e lo stesso approccio concettuale. Anche dietro a questo lavoro c’è lo stesso concetto che sottende ad Armadi, Habitat e Scale. Si tratta della ripetizione di un modulo che si trasforma continuamente perdendo la sua identità. Sono molto attratto dalle lastre proprio per il loro carattere di composizioni di immagini che si ripetono all’infinito impedendoci di toccarle e di scoprirle perché non si danno mai pienamente.

    Ne parli come se fossero creature viventi, appena nate. Che rapporto hai con le tue opere?

    È vero. Mi calo così tanto nei miei lavori che ho con loro un legame molto forte, tanto da non riuscire ad analizzarli se non c’è abbastanza distacco.

    Di che distacco parli?

    Credo sia una delle poche libertà che ci vengono concesse come uomini e nel mio caso anche come artista. È proprio un mio metodo di lavoro… quello che mi interessa lo elaboro spostandomi di poco nell’analisi del problema. Quando metto a fuoco l’aspetto enigmatico mi fermo e lascio sedimentare… a volte per poco tempo, altre più a lungo. Poi riprendo in mano le opere e queste si trasformano in cose altre. Del resto anche io mi trasformo, non sono mai la stessa persona dell’attimo precedente. Di conseguenza si modificano le forme nello spazio rendendo possibile la costruzione, o la scoperta, di nuovi dialoghi.

    Mi sembra che ci sia molto dialogo nelle tue opere. Sbaglio?

    No, non sbagli. Cerco sempre di creare un dialogo tra quello che faccio. Svegliami per esempio nasce con l’intenzione di creare un dialogo sul colore nero con il nero. È un dittico, è legato al tema autobiografico del doppio e al tema del dialogo. Da una parte c’è la mia visione, più organica e mossa, dall’altra invece una versione più severa. Io provo a farle dialogare, ad avvicinarle e poi allontanarle, e poi ancora a ritentare un contatto. Anche se credo che non si uniranno mai… O forse chissà, un giorno ce la farò. E allora quel giorno smetterò di dipingere (ride).

     

    © THE BLANK 2024
    SOCIAL
                   
    APP
       
    The Blank Board | Intervista a Marco Grimaldi