In occasione di ARTDATE 2013,
Italo Chiodi aprirà il suo studio in via Don Giuseppe Ronchetti 11, Bergamo
Domenica 19 Maggio dalle 10.00 alle 14.30
THE BLANK BOARD
un progetto a cura di Claudia Santeroni e Maria Zanchi
Intervista di Claudia Santeroni
Photo di Maria Zanchi
Inizierei come sempre chiedendoti della tua formazione.
Sono figlio d’arte, mio padre dipingeva, per cui da ragazzo facevo qualcosa, anche solo per una sorta di istintività familiare. La vera partenza di tutto è però un incidente che ho avuto quando, a vent’anni facevo il lattaio, che mi ha fatto capire che dovevo cambiare strada, riprendere gli studi che in precedenza avevo abbandonato. L’unica scuola alla quale potevo accedere, in ritardo nelle iscrizioni, era l’Accademia Carrara, che all’epoca era concepita come una bottega-laboratorio nella quale alcuni insegnanti ti accompagnavano nell’apprendimento delle varie tecniche artistiche. Successivamente il destino mi ha portato a Brera, dove ho studiato pittura per altri quattro anni. Oggi qui insegno ‘Disegno’ dopo aver peregrinato per alcuni anni in varie Accademie italiane.
Quando inizi ad occuparti della tua ricerca artistica?
Guardandomi indietro, mi sono reso conto che il perimetro del mio lavoro nasce nel luogo dove ho costruito i miei primi passi, Villa d’Ogna, un piccolo paesino della bergamasca. Il fiume, la fabbrica, il bosco e un canale d’acqua, sono stati gli elementi sui quali ho formato il mio sguardo e dove volentieri sono sempre ritornato. Di volta in volta i segni e i gesti del paesaggio si sono trasformati in linguaggi diversi, diventando pittura, scultura, installazione. Mi è difficile all’oggi definirmi o darmi una etichetta. Non mi direi né scultore, né pittore, ma artista, ma non in modo presuntuoso, ma artista in quanto operatore all’interno di questo mondo; amo occuparmi di arte e utilizzarne tutti i mezzi che i vari linguaggi mi offrono per sviluppare l’idea che in quel momento ho in testa.
Qual è la tua fonte d’ispirazione?
La più grossa fonte di ispirazione è la natura, anche se, vivendo in città da molti anni, ho un forte legame anche con l’ambiente urbano. Ultimamente sto lavorando sull’idea della natura all’interno della città, ad esempio il fiore o piccole piante che nascono sugli spigoli o sui tetti delle case, negli angoli dei marciapiedi o in luoghi abbandonati, e non solo di periferia. Questi elementi che sto osservando da un po’ di tempo diventano piccoli corridoi naturali che collegano ambienti diversi: la natura e la città, il fuori e il dentro.
Il tuo progetto lavorativo attuale si impronta su questa tematica?
Il lavoro di cui mi occupo ora ha come elemento principale il seme, come metafora del viaggio, della migrazione all’interno dei luoghi. Lo spostarsi va a costruire nuove abitabilità, allarga costantemente i confini, il perimetro del proprio vivere. In un primo momento, come faccio di solito, ho prodotto una serie di disegni, che mi hanno aiutato ad entrare meglio nell’idea, a chiarirmela, poi mi sono concentrato su uno in particolare, che ho voluto ingrandire. Per sviluppare questa idea sto utilizzando la pittura ad acrilico, con aggiunta di segni a matita, carboncino, mordente.
Collabori con una galleria?
Ho fatto alcune mostre in qualche galleria ma, una sorta di collaborazione continua non l’ho mai avuta. Mi sono sempre mosso, un po’ anche per scelta, fuori dai circuiti soliti. Ho avuto qualche proposta che però non coincideva con l’idea che avevo io dell’esposizione e inoltre perché per molti anni ho voluto investire nell’insegnamento, professione che amo molto. Nel periodo milanese ho fatto diverse mostre insieme ad un gruppo di compagni di scuola, ma non mi apparteneva l’idea di cercare un luogo e doverci dividere lo spazio per esporre i lavori. Avevo la necessità in quegli anni di un un modo diverso di interpretare l’idea di spazio espositivo. Mi sono allontanato da quel gruppo, ed ho iniziato una serie di relazioni con altri artisti più vicini a me e a quella idea che mi ronzava in testa. Con loro ho condiviso per anni un percorso, improntato sul creare opere che si relazionassero allo spazio espositivo, lavorando per progetti “site specific”. Contemporaneamente insegnavo, quindi non avevo l’ansia di dover vendere i miei lavori. Questo meccanismo dei progetti, che mi appagava poeticamente, probabilmente mi ha escluso dalle gallerie. Ritenevamo che ogni elemento che concorreva alla realizzazione della mostra, compreso il catalogo, fosse importante. Per questo dedicavamo molto tempo alla progettazione sia delle opere che della collocazione di queste nello spazio. Doveva risultare qualche cosa di unitario di collettivo, a scapito a volte dell’aspetto individuale. Per dieci anni ho lavorato in questo modo, soprattutto insieme ad altri 3 artisti. Questo per me è diventato un’enorme ricchezza intellettuale, che cresceva di pari passo alla mia ricerca individuale.
Un artista che ammiri che ti ha preceduto ed un contemporaneo che ti incuriosisce.
Io sono una sorta di “tuttivoro”. Mi piace Anselm Kiefer, Christian Boltansky, Sean Scully, ma allo stesso tempo amo Richard Long, la pittura medievale, le sculture egizie e l’arte primitiva. Credo esista una sorta di “modo di essere artista”, che si traduce in epoche differenti, producendo opere diversissime fra loro, ma accomunate da un filo rosso.
Come influisce il tuo ruolo di insegnante nella tua ricerca? Una linfa cui attingere, una fonte di ispirazione, una distrazione …
Non mi sento distaccato da niente, tutto mi appartiene e tutto sono io. Sono un’entità unica, che si sviluppa in più settori, cercando di lavorare creativamente in ciascuno di essi senza discontinuità. Ogni luogo che frequento e ogni persona che incontro mi offre stimoli diversi. Come mi piace dire: noi siamo tutti i luoghi e tutta la gente che incontriamo.
Un tempo studente della Carrara e di Brera, oggi insegnante dell’Accademia. Una tua lettura sui mutamenti del panorama accademico.
I linguaggi e le esigenze sono completamente cambiate. Oggi esistono: il digitale, Skype, internet, facebook, le email … e tutto questo è fantastico. I giovani della mia generazione non ne hanno certo potuto godere, ma avevano altri linguaggi, altri mezzi, altre esigenze. Come insegnante cerco sempre di offrire quello che sono e che ho costruito, facendo amare ai miei studenti innanzitutto il linguaggio del disegno e tentando di trasmettere loro l’amore per i dettagli, per le piccole cose, la differenza fra carte diverse, tra le differenti attrezzature, l’idea di viaggio e del viaggiare, di navigazione e del navigare. Capisco siano raffinatezze della mia generazione, che non appartengono alla concezione della realtà dei miei alunni che stanno vivendo i loro anni di formazione oggi, improntati sulla velocità e sulla fruizione rapida. I nostri sguardi forse vanno in direzioni diverse, ma diventa importante per me la compresenza di punti di vista e di punti panoramici differenti. Devo considerare che avrò nel tempo sempre studenti ventenni. Fra cinque anni insegnerò a ventenni. Questi saranno nativi informatici, e dovrò comunque portarli a sviluppare uno sguardo lento sulle cose e spero di riuscire ad insegnare loro la bellezza della natura con i suoi ritmi e l’idea dei semi come metafora del viaggio, della migrazione e della rigenerazione nel lento mutarsi delle cose.
Inserimento dei giovani artisti nel panorama contemporaneo. La tua lettura da artista indipendente e insegnante dell’Accademia di Brera.
Anche in questo caso i tempi sono cambiati. Molti dei miei colleghi a scuola mi raccontavano che da giovani, ancora in molti casi ancora studenti, venivano chiamati dalle gallerie. Appena producevano qualcosa avevano la possibilità di esporla e di venderla. È vero che forse erano meno di adesso e le gallerie forse più disposte ad investire sui giovani. Ritagliarsi uno spazio oggi per i giovani è un po’ più difficoltoso. Il disegno e la fotografia per esempio sono state considerate le cenerentole del mondo dell’arte, mentre oggi vengono considerate a oggetti artistici a pieno titolo. Penso che sia necessario cambiare la logica e la modalità di esporre, perché sono diverse anche la percezione e la fruizione delle opere. Ogni linguaggio è vivo, e per questa ragione necessita di trasformazioni costanti per evolversi. I giovani artisti devono essere capaci di intuire ed inventare nuove formule che rispondano alle richieste della contemporaneità.