INTERVISTA A GIOVANNI KRONENBERG
Laura Baffi
Laura Baffi – Sarò schietta: sei uno degli artisti a cui sono più, per così dire, affezionata. Ho ancora vivido il ricordo di quando, per la prima volta, mi recai a una fiera e vidi i tuoi lavori esposti. Fu in quell’occasione che ti conobbi: rimasi colpita da quel che vidi, in quanto i tuoi lavori mi sembrarono decisamente vicini al percorso artistico a cui mi stavo approcciando. Da quel giorno ho seguito le tue mostre (sia personali sia collettive) con vivo interesse, e sento di poter dire che la vicinanza percepita in principio non è mai venuta meno. Chiedo a te, però, di descrivere brevemente il tuo lavoro.
Giovanni Kronenberg – No ho formule o “statements”, anzi credo che bisognerebbe seriamente smetterla di compilarli scolasticamente. Credo non spetti all’artista raccontare o illustrare il suo operato. E’ abbastanza assurdo che gli si chieda di porre delle domande o avanzare delle ipotesi – attraverso le sue opere – e poi di dare anche le relative risposte o certezze. L’artista può veicolare qualche informazione in più ma è uno spettatore del suo lavoro come tutti gli altri e come tutti gli altri soggetto al mistero e alla segretezza in esso contenuto. Non amo nemmeno fare citazioni a dire la verità, ma una, conosciutissima, potrebbe essere idonea: “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”
LB – In linea di massima lavori sempre su dimensioni ridotte privilegiando, sulla veduta d’insieme e la monumentalità, un’arte fondata sulla ricerca del dettaglio. Attraverso dei gesti apparentemente semplici operi dei micro (o macro, a seconda del punto di vista) interventi che alterano la naturalità della materia da te posta sotto osservazione. Come se, raccogliendone i resti e appropriandotene, attribuissi all’oggetto un senso altro, insito, ma altrimenti inespresso. Da dove provengono gli oggetti che collezioni e che, dopo averli trasformati, esponi?
GK – Non so se lavoro con dimensioni ridotte. Lavoro con dimensioni reali, oneste. Gli oggetti che utilizzo sono così. Posso dire a proposito che per certo non forzo la mie opere verso un gigantismo che ho sempre trovato stucchevole, gratuito, inutile. In una conversazione, se ha uno svolgimento normale inteso come condivisione o confronto, non c’è bisogno di urlare. Poi certo si può anche arrivare a urlare e a picchiarci persino, ma non è una condizione dogmatica o preconfezionata. Penso spesso che Il quadro più conosciuto e misterioso della storia dell’arte -la Gioconda- è poco più grande di 50 x 70 cm. Lavoro sul dettaglio perché gli oggetti che uso hanno una forte carica polisemica e non avrebbe molto senso, ai miei occhi, stravolgerli nella speranza di aggiungerne dell’ altra. Considero l’arte che propongo un’arte di rivelazione e questa si manifesta, la maggior parte delle volte, semplicemente attraverso spostamenti minimi, a volte persino transitori. Gli oggetti che colleziono e che propongo come opere arrivano spesso da incontri casuali, altre volte da idee e volontà ben precise. Negli anni ho instaurato delle relazioni con delle persone che mi sottopongono questi manufatti. Cerco di valutare le loro possibilità formali e materiche, se credo che valga la pena provo a metterci le mani e a lavorarci.
LB – I tuoi lavori esprimono una semplicità rustica, ma tra i materiali che usi vi sono spesso pietre preziose. Per la stragrande maggioranza, ogni pezzo da te utilizzato proviene dal mondo naturale, sia che questo sia un materiale “povero” sia un materiale “ricco”. Ricchezza che però non è ostentazione, ma eleganza, raffinatezza. Come potremmo interpretare l’uso che fai dell’oro?
GK – L’eleganza dell’opera è per me una delle sfide più importanti su cui lavorare. Con eleganza non intendo uno stato di vanità soggettivo, ma come una dimensione spirituale, capace di isolare l’opera ed esaltarne il pathos e la segretezza. L’oro -per me unicamente presente come sottilissima foglia oro, utilizzata sia nelle sculture che nei disegni- è un passaggio e approdo inevitabile e ricorrente del mio percorso, se si pensa che negli ultimi 10 anni ho lavorato con materiali come argento, malachite, agate, avorio, porcellana, cristallo di rocca e tanti altri. Mi affascina anche il suo utilizzo nella storia dell’arte, perché ne percepisco una tradizione e quindi un confronto.
LB – Conosci il wabi-sabi? Lo descrivo brevemente, anche per chi legge: si tratta di un modalità attraverso cui vedere le cose, specialmente nella loro transitorietà, tipica giapponese e di derivazione buddhista. Essenzialmente consiste nell’attribuzione di valore a un elemento oltremodo definibile imperfetto e/o incompleto, in opposizione all’ideale di bellezza tipico dell’Antica Grecia. Nel wabi-sabi il difetto diviene una caratteristica, una peculiarità. Difatti la pratica che meglio lo definisce è il kintsugi, dove con l’oro si saldano i frammenti di una ceramica rotta, impreziosendola sia sotto il punto di vista economico sia in quanto diveniente pezzo unico. Si dice che wabi-sabi sprigioni oltre a un senso di bellezza, una certa malinconia. Per lo più la bellezza secondo il wabi-sabi è insita in ciò che è vecchio, avvizzito, deperito. Untitled (2019, dried leaf, golden marker) ne è, a mio parere, un’opera rappresentativa. Il tempo ha difatti una componente fondamentale nel tuo lavoro: gli oggetti da cui parti appartengono a un’altra epoca, sono avvizziti, in alcuni casi fossilizzati. Qual è la tua posizione in merito al rapporto tra arte e (im)perfezione?
GK – Le mie sculture mettono in contatto tempi distanti, spesso lontanissimi, in nessun modo associabili o avvicinabili; di fatto azzerando e livellando tempi e distanze una volta reinseriti nel “qui e ora” come opere d’arte. Non conoscevo il wabi-sabi, ma mi sembra una modalità effettivamente affine con alcune mie prassi e suggestioni lavorative. Molti lavori che ho realizzato sono letteralmente frutto del caso; alcune di questi si manifestano attraverso una transitorietà. Pathos, mistero, segretezza, spiritualità: le caratteristiche che cerco nelle opere d’arte non derivano da esattezza o perfezione.