INTERVISTA A LUISA RABBIA
ELISA MUSCATELLI
ELISA MUSCATELLI – Come descriveresti la tua pratica artistica a chi vi si approccia per la prima volta?
LUISA RABBIA – A chi si avvicina al mio lavoro per la prima volta chiederei soprattutto di guardarlo e di sentirlo. Nel senso che il mio approccio alla tela è decisamente emotivo e quindi spero che raggiunga l’osservatore sullo stesso piano. Detto ciò, se poi la conversazione si estende, parlerei di cosa e’ importante per me e di quali sono le mie riflessioni mentre sono in studio. Il mio lavoro riflette sulla nostra posizione nel mondo, sulla relazione fra l’uno e l’altro, dal micro al macro, quindi dall’esperienza del singolo individuo a come questa si estenda e coinvolga gli altri. Le superfici dei miei quadri sono ricoperte da impronte digitali che applico all’inizio, proprio nella stesura del gesso, nella preparazione della tela. Nell’impronta non si leggono le linee del dito stesso, ma e’ una traccia generata dalla pressione nella materia ancora liquida, quindi abbastanza in rilievo, sulla quale successivamente interagisco applicando strati di pittura, graffiando, aggiungendo ed eliminando, in un processo di per sé che ricorda l’esperienza della vita, poiché la vita stessa è un processo di addizione e sottrazione. Queste impronte rimandano a dei fossili. È come se disegnassi su tracce che nonostante siano mie, sono metaforicamente anche di altri.
EM – Hai sperimentato diversi linguaggi e il disegno è diventato tuo medium prediletto a partire dagli anni 2000, data del tuo trasferimento a New York. Coincidenza o il clima americano ha influenzato la tua preferenza sul medium espressivo?
LR – Non è stato un approccio razionale, non approccio quasi mai nulla in studio razionalmente, quindi sicuramente iniziare a disegnare, o perlomeno fare del disegno la pratica centrale della mia ricerca, non è stata una scelta razionale. Il disegno è sempre stato importante per me, ma quando vivevo in Europa era comunque secondario e di sostegno alle sculture che facevo a suo tempo. Quando mi sono trasferita negli Stati Uniti ha preso una posizione centrale, forse anche per ragioni economiche, perché comunque col disegno si può realizzare così tanto partendo da materiali veramente alla portata di tutti. Con una matita si può creare un mondo, passando da un piccolo disegno ad uno grande, estendersi sul muro o su diverse superfici come la cartapesta, la ceramica e il video. Il disegno è un medium che mi ha accompagnato mentre il lavoro è evoluto nel corso degli anni. Sopratutto, però, disegnare, per me, è diventato necessario proprio a livello psicologico, nel senso che, trovandomi in una città così grande, dove comunque non parlavo neppure la lingua ma ero circondata da una moltitudine di linguaggi visivi … disegno era senza dubbio quello che mi apparteneva di più, era quello che poteva raccontare di più quella che ero. Disegnare era un modo per trovare me stessa. Succede qualcosa nell’approccio della superficie attraverso la linea, nella relazione fra il gesto e lo stato mentale che sembra essere adatto al mio approccio artistico. Anche quando ora lavoro su tela, non utilizzo molto i pennelli ma per la maggior parte i colori li stendo con le dita e li graffio con delle punte. Cerco costantemente un contatto con la superficie, forse è la mia necessità di lasciare un segno. Il pennello, a meno che proprio io lo impugni e raggiunga il legno del pennello, non sembra mettermi in quello stato mentale e psicologico adatto per dimenticare tutto il resto e connettermi semplicemente con il lavoro.
EM – Guardando le tue opere non si può non notare che il blu assume una posizione prioritaria. In che modo è nato questo tuo dialogo con il colore e come è cambiata la sua vibrazione nei tuoi confronti nel corso del tempo?
LR – Ho iniziato a utilizzare il blu quando mi sono trasferita negli Stati Uniti, abbastanza casualmente, nel senso che a suo tempo per arrotondare economicamente e riuscire a mantenermi in questa città così cara lavoravo come cameriera. Fra un ordine e l’altro molto spesso mi sono ritrovata con una penna blu fra le mani e sul libro degli ordini a disegnare. Disegnavo soprattutto quello a cui ero sensibile a suo tempo ovvero situazioni che vedevo in
metropolitana, o perlomeno come le percepivo. I soggetti dei miei lavori erano molto spesso homeless, persone senza tetto, e il blu, mi sono accorta, comunicava sia su un piano mentale che emotivo. Nel corso degli anni ho continuato ad esplorare il potenziale di questo colore, prima con la biro poi con le matite. Dalla carta sono passata a realizzare delle sculture di cartapesta, poi il blu ha iniziato ad assumere altri significati e a cambiare tonalità: c’è stato il blu profondo delle vene, quando il mio lavoro è diventato più astratto e ho rappresentato dei paesaggi interiori, è diventato un blu di una pelle quando non mi interessava rappresentare il colore della pelle, è diventato il blu dell’inchiostro dei valori biometrici quando l’impronta digitale è diventata parte del mio lavoro. All’inizio mi interessava che l’impronta non fornisse informazioni su chi l’aveva applicata, ma che suggerisse comunque un’identità, senza raccontare l’etnia o il genere sessuale. Poi il blu dell’impronta digitale è diventato un blu di galassie, un blu di particelle … e tuttora, il mio lavoro conserva l’umore del colore blu. Il blu ha un umore profondo, ci porta all’interno dell’animo umano. Ora, nel mio lavoro, è molto spesso sepolto da tanti altri colori ma talvolta riappare quando graffio la superficie e viene fuori cosa c’era prima.
EM – Nello strutturare questa intervista mi hai risposto che avresti preferito filmarti assieme ai tuoi quadri nello studio a New York, mi incuriosisce il tuo rapporto con l’opera, come se si trattasse di una generazione agamica
LR – Io credo che esista sempre una generazione agamica in un processo di creazione, inevitabilmente, anche quando l’artista decide di non toccare l’opera direttamente con le proprie mani. Semplicemente nella scelta dei materiali, dei soggetti, nelle scelte di percorso, anche quando l’artista commissiona l’opera a qualcun altro, c’è già un’informazione personale che contamina l’opera finita.
Però credo che tu abbia fatto questa domanda perché sulla superficie dei miei quadri c’è così tanto di me, ci sono le mie impronte digitali, ci sono le linee che lascio, poiché anche all’interno della pittura, con le mie linee che sottraggono, in qualche modo continuo a disegnare. Il disegno di per sé è traccia e racconta anche della psicologia di chi esegue la linea. Quindi hai ragione, al di là dei soggetti che scelgo, che già inevitabilmente parlano dei miei interessi e della mia persona, la stessa esecuzione dell’opera è sicuramente un’espressione di me stessa. Però non sono io al centro del mio interesse, nel senso che se da un lato scopro me stessa anche nel processo di esecuzione, in realtà quello che mi interessa è di riflettere sulla relazione mia con l’altro e quindi, dal singolo al collettivo, sulla nostra posizione nel mondo verso l’altro. Ma d’altra parte, come si fa ad andare verso l’altro senza prima esplorare noi stessi? Come capire il mondo senza capire noi stessi? Per me ‘fecondare’ l’opera d’arte è importante per espormi, ma anche per prendere responsabilità. Pensare alla responsabilità è positivo per me perché il fatto che io possa e che abbia la capacità di agire e di fare delle scelte nella vita di tutti i giorni mi dà un senso di libertà, mi fa sentire che posso cambiare le cose, e questo vale sia all’interno del formato della tela che nel corso della mia vita.
EM – Ci sono stati riferimenti, artistici e non, importanti per lo sviluppo della tua carriera artistica e personale?
LR – Fra i miei riferimenti artistici importanti c’è sicuramente Louise Bourgeois, che ho scoperto nei miei vent’anni. E’ un artista che tutt’ora mi commuove, e a cui tutt’ora guardo per come rappresenta il corpo umano, che sia astratto o figurativo, attraverso i diversi media che ha utilizzato, persino la pittura. Ho recentemente visto una sua mostra di dipinti giovanili al Metropolitan Museum di New York che ho trovato straordinaria. Negli ultimi anni, due artisti che sono diventati molto importanti per me sono Leon Golub ed Edvard Munch. Entrambi mi interessano su un piano tecnico, ma mentre Golub mi ispira per come elabora i suoi soggetti politici, Munch, e’ per me importante per come affronta la condizione umana. Quando penso al loro approccio pittorico, nonostante siano chiaramente diversi, penso al comune interesse per rappresentare una superficie pittorica che fosse espressione della vita stessa, quindi una superficie non pristina e perfetta, ma vissuta. Golub la otteneva raschiando brutalmente via la pittura dopo averla dipinta. Munch non mi risulta che raschiasse, però metteva all’aria aperta le proprie tele esponendole agli agenti atmosferici in modo da esporle alla vita stessa. Infatti molti dei suoi quadri sono tuttora molto invecchiati rispetto alla quantità di tempo trascorso, però proprio perché gli interessava che fossero vivi, vivi come siamo vivi noi. E tra gli altri artisti, Mark Rothko inevitabilmente, poiché se si è interessati all’animo umano non si può non essere sensibili alla sua opera. Un’altra artista è Agnes Martin, che chiaramente è formalmente molto diversa da me, ma sono molto sensibile ai suoi scritti, e per questa ragione la sento molto, molto vicina. Il lato spirituale del mio lavoro è inspirato da Agnes Martin, Agnes Pelton e Georgia O’keeffe. Poi c’è un’altra artista che ogni volta che vedo le sue mostre mi fa sentire piccola così [Rabbia mostra la distanza fra l’indice e il pollice della sua mano], e lei è Marisa Merz.