INTERVISTA A GIAN MARIA TOSATTI
ELISA MUSCATELLI
Elisa Muscatelli – Come descriveresti la tua pratica artistica a un pubblico che la incontra per la prima volta?
Gian Maria Tosatti – Dunque io costruisco dei dispositivi che generano delle performances, questa è la dicitura più corretta del mio lavoro, che normalmente viene definito installazione ambientale, però che cosa significa installazione ambientale: significa la creazione di un macchinario all’interno del quale viene inserito il visitatore e quando si trova al suo interno compie un’esperienza. Ecco, l’esperienza è l’opera d’arte, anche perché nei fatti come diceva Marcuse in un suo saggio del 1938, nel momento in cui l’uomo è incapace di vivere appieno la sua capacità esperienziale, l’arte smette di avere un senso. Il problema è che oggi abbiamo ancora delle difficoltà enormi a conoscere noi stessi fino in fondo, a esperire la vita fino in fondo a tutti i suoi livelli e l’arte è uno strumento che ci aiuta ad appropriarci di queste capacità che dovremmo avere, comunque di viverci una piena dimensionalità della nostra esperienza di vita. Ci sono dei significati che spesso nelle azioni quotidiane ci sfuggono, delle confessioni che non siamo in grado di fare a noi stessi e che pure determinano il modo in cui viviamo la nostra vita tutti i giorni, ecco, a queste difficoltà l’arte viene in soccorso e cerca di dare una soluzione, una soluzione a un’impasse. I miei macchinari, queste grandi installazioni ambientali che costruisco in alcune città in giro per il mondo sono campi di attrito fra ciò che siamo abituati a essere all’esterno e ciò che invece siamo dentro di noi.
EM – Esponi spesso in diverse realtà urbane. Hai riscontrato degli sguardi differenti rispetto al pubblico ordinario, classico frequentatore di musei? Le specificità culturali e le tradizioni del luogo in cui lavori, incidono sulla presentazione dell’opera?
GMT – Non c’è un pubblico classico per l’arte, nel senso che il pubblico tipico non necessariamente è un pubblico che si pone di fronte all’opera d’arte così come bisognerebbe porsi, che cosa intendo, intendo dire che l’arte è sempre per tutti, a volte l’habitué del museo si aspetta dall’arte qualcosa di specifico legato appunto alla sua aspettativa. In realtà mi è capitato molto spesso di relazionarmi in maniera più soddisfacente con persone che non avessero nessuna preparazione, con quelle che all’inizio ti dicono “Mah io non ci capisco niente”, perché in effetti l’arte non è che deve essere capita semplicemente bisogna porsi di fronte a essa e farla lavorare, cioè far attivare qualche cosa che ci riguarda da quel dispositivo che è l’opera d’arte, allora ecco c’è questa differenza tra chi si pone in maniera nuda di fronte all’opera, senza immaginare neppure di capirla, e poi invece è in grado di esperirla fino in fondo, e chi invece è lì e tenta a volte, anche maldestramente, tecnicamente di capire qualcosa, che poi non è neppure ciò che va capito. L’arte non è un quiz, tante volte mi trovo di fronte appunto a un pubblico che si pretende più preparato e cerca quasi di dire “ah ma questa cosa viene da questo, questo viene da quell’altro” l’arte non è un quiz perché sarebbe come prendere una persona e dire “ah ma questo l’ha preso dalla madre questo lo ha preso dal padre” e a quel punto hai svuotato completamente l’identità di questa persona, l’hai reso un Frankenstein di pezzi, non è così in realtà, quando fai questo ti perdi la verità di quella persona ecco con l’arte è lo stesso.
In realtà non esiste un pubblico diverso da quello generico, nel senso che è il modo in cui ci si pone di fronte all’opera d’arte che cambia le cose, dunque io cerco sempre di lavorare desumendo la conoscenza che vado cercando attraverso l’opera perché io stesso sono un ricercatore, anche per me l’opera è un meccanismo di conoscenza. Funziona così: l’artista conosce qualcosa e poi lascia l’opera aperta, come se fosse un una trappola perché ci cadano dentro altre persone, l’artista costruisce la trappola per caderci dentro e poi la lascia aperta di modo che non sia lui soltanto a caderci dentro. Vado in giro per il mondo a costruire opere perché ogni città, ogni comunità è depositaria di una certa conoscenza su alcuni argomenti importanti. Noi fortunatamente non viviamo in un paese in guerra per esempio mentre recentemente sono stato in Ucraina dove c’è una guerra che va avanti ormai da molti anni, alcuni elementi sull’Essere in Italia fortunatamente non possono essere oggi compresi e invece bisogna spostarsi, andare altrove, capire che cosa significa vivere in una condizione in cui la morte può arrivare per ragioni così sfacciatamente politiche. Quindi è ovvio che nel momento in cui cerco di estrarre il segreto di una comunità e poi lo espongo, certamente il rapporto con quel pubblico specifico, che ripeto poi non è sempre tutto il pubblico, perché molte persone poi viaggiano appositamente per vedere queste opere o magari vengono da altri paesi o le vedono attraverso la documentazione, però ecco il pubblico di quel paese spesso si sente profondamente svelato, svelato a se stesso, non svelato agli occhi del mondo, a quello non ci pensano, però si sente svelato se stesso. Mi è capitato in molte occasioni di rendermi conto di quanto potente potesse essere questa cosa perché spesso ci sono state scene di profonda commozione, di pianto, anche di difficoltà a un certo punto, spettatori che sono andati fisicamente in difficoltà durante l’opera, ma non perché ci fossero delle fatiche particolari, ma perché affrontare certe immagini che gli appartenevano così profondamente aveva attivato quella sorta di vedere il meccanismo che conosciamo nella scena del teatro di Amleto, quando il re diventa cieco, o comunque non vede più perché si trova di fronte alla verità di quello che ha compiuto. In quel caso è un atto accusatorio, nel mio caso non cerco mai di mettermi di fronte al pubblico in una maniera così aggressiva però certamente mostrargli qualcosa che li riguarda così a fondo fa sì che le reazioni non siano quelle abituali che ti puoi attendere in una visita museale tipo “ah bello” e di solito questo non capita mai, capitano tante cose molto particolari nei miei lavori soprattutto quando le persone escono. A volte ho la fortuna di poter conoscere o di essere riconosciuto dalle persone che vengono a vedere i lavori e fuori magari si avvicinano e ti dicono quello che pensano, altre volte ti metti da una parte, soprattutto in paesi lontani, ti metti da una parte e osservi il modo in cui le persone escono e ti accorgi che hanno cambiato completamente il modo di essere rispetto a quando sono entrati e questo significa che l’opera ha funzionato.
EM – Indro Montanelli, Edward Colston, Cristoforo Colombo, monumenti vandalizzati e desiderio di riscrivere una parte di storia. Come si pone l’installazione artistica urbana in questo dibattito?
GMT – L’installazione urbana non è un monumento e questa è una cosa essenziale, è un’altra cosa e qualora diventasse un monumento non avrebbe ragione di essere abbattuta e spiego perché: il monumento classico è qualcosa che nasce in una società diversa dalla nostra, poi abbiamo attraversato diverse ere chiaramente l’era greca, l’era latina, il monumento contro cui ci scagliamo o si scaglia una parte di società, a cui effettivamente io non mi sento di appartenere in questo momento, è il monumento che nasce nella società feudale, ovverosia una famiglia di potenti, che siano principi, conti marchesi, re, costruisce delle statue che rappresentano la propria dinastia e quindi da un certo punto di vista genera degli idoli del proprio potere, ecco contro questo, che poi a volte appunto va come dire a incontrare anche figure non necessariamente legate a questo tipo di logica, per esempio Cristoforo Colombo è un esploratore, però a suo modo comunque rappresenta il potere di un certo tipo di società, lo comprendo. Ovviamente il problema è svincolarli poi dalla loro ragione storica, comunque l’idea è sempre questa, nel senso, questa persona ha scoperto questo mondo che è l’America, rappresenta il nostro potere europeo, la Spagna e poi gli altri paesi che a partire dalla sua scoperta hanno fondato questo paese, ovviamente ripeto è una è una dinamica che non ci appartiene proprio più nel senso che ormai siamo in una società totalmente democratica quindi per assurdo non ci sono più monumenti come questi che vengono eretti. Quello che venne fatto per Montanelli a suo modo fa già abbastanza ridere, nel senso che si vedeva che era un gesto fuori dal tempo, quindi secondo me la sua distruzione non riguarda tanto le questioni come dire legate a presunte violenze, ma riguarda in primo luogo il fatto che non si può cercare di mettere in un museo di arte contemporanea un quadro dipinto come negli anni venti o come nella metà dell’ottocento, e per quanto ben realizzato, e cosa che quel monumento ovviamente non lo era, è comunque qualcosa di fuori tempo. Al di là della bellezza e bruttezza del monumento, è qualche cosa di fuori tempo, quindi giustamente è un errore allora gli errori vanno effettivamente eliminati di solito, soprattutto in arte. Partendo da questo diciamo che il monumento ha questo tipo di problema: è fuori tempo, quel tipo di monumento, nella società democratica c’è un altro tipo di monumento che invece prende piede ed è il monumento che nasce da un gesto artistico, che possa essere opera d’arte di qualsivoglia tipo. A me è capitato di realizzarne alcune che andassero in quella direzione, ma tra l’altro non consapevolmente, non si costruisce mai un monumento consapevolmente perché ciò che rende un’opera un monumento è il riconoscimento da parte di una comunità. Mi è capitato alcuni anni fa di lavorare in questo luogo che si chiama MAAM all’epoca non si chiamava ancora MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove a Metropoliz nella periferia di Roma, una grande fabbrica occupata da migranti e anche persone italiane arrivate un po’ da tutto il mondo. Ricordo praticamente che il mio fu il primo lavoro realizzato all’interno della fabbrica, ed era questo grande telescopio che doveva inquadrare la luna come un luogo di utopia un luogo verso cui muoversi. Aveva a che fare con la logica dei migranti, gli stessi operai che poi erano le persone che vivevano lì e che ci aiutavano, che insomma poi sarebbero diventati i gestori di questo museo di arte contemporanea autogestito, museo abitato.
Per la prima volta si trovarono di fronte a questo lavoro che parlava di chi erano e quindi mi dissero “Noi vogliamo portare l’opera sulla cima della torre” c’era una torre di quaranta metri su questa fabbrica, che era tra l’altro irraggiungibile più o meno, perché c’era soltanto una scala di ferro a pioli che ti portava fino sopra, quindi era già molto difficile e pericoloso arrivarci da soli figuriamoci portare un oggetto gigante lungo oltre quattro metri alto tre metri; era realmente un suicidio proprio sul piano fisico. Quando mi dissero questa cosa dissi perché, l’opera era concepita per stare nel cortile della fabbrica, mi sembrava un posto già sufficientemente chiaro e ideale per un’opera d’arte, e loro mi risposero perché anche in questa periferia lontanissima di Roma, dove in fondo tutto è piuttosto duro e anche brutto diciamo la verità, anche quaggiù nessuno ci vuole vedere, noi finché siamo dietro le mura di questa fabbrica e siamo invisibili allora va tutto bene, ma quando usciamo per fare le nostre attività per portare i figli a scuola allora non ci vuole vedere nessuno. Vorremmo mettere questo telescopio in cima alla torre perché per noi questo telescopio è un simbolo, dice la ragione per cui siamo qui, siamo qui perché abbiamo dei sogni, siamo qui, ci muoviamo, viaggiamo perché cerchiamo una vita migliore. Ecco, diciamo che il mio telescopio era soltanto un’opera d’arte, una sorta d’installazione di scultura che certamente aveva questo significato al suo interno, però diventa monumento nel momento in cui la comunità ti dice per noi questo è un simbolo, e tu non avresti immaginato che potesse diventarlo. L’opera d’arte quando tu la crei, la crei per essere uno stimolo, non per essere un simbolo, diventa un simbolo quando qualcuno davvero la riconosce come tale, la elegge come tale e crea il monumento, quindi questa comunità ha creato il monumento, e l’opera d’arte alla fine l’abbiamo portata in cima a quella torre veramente rischiando la vita. C’è un film che si chiama “Space Metropoliz” di Giorgio de Finis e Fabrizio Boni che racconta questo gesto piuttosto ardito, e l’abbiamo portata lì sopra, adesso è montata ormai da dieci anni, quest’anno fa dieci anni, e sono dieci anni che chi entra a Roma per la via consolare Prenestina, quindi una via che esiste dai tempi dell’Impero romano, chi entra a Roma per quella via prima di entrare nella città vede questa alta torre con in cima questo enorme telescopio fatto di barili di petrolio esausti, ed è il modo in cui quella comunità dice al resto del mondo che non è un gruppo di ladri o tutto ciò che la peggiore cultura razzista ha attribuito alle persone che vengono e che viaggiano per trovare una vita migliore, ma sono appunto dei sognatori. Sono persone che ci aiutano a pensare la città migliore e tra l’altro sono uomini che vivono e hanno creato un museo abitato, un elemento innovativo meraviglioso di cui si è parlato tra l’altro in tutto il mondo, quindi, tra l’altro, quello è un monumento che non lancia una promessa vaga di cui non sappiamo, che non sappiamo se verrà mantenuta, ma parla esattamente di una comunità che tanto è stata sognatrice da aver creato a casa nostra, cioè in Italia, a Roma, una delle eccezioni museali più luminose e belle che si siano viste. Poi probabilmente è un prototipo anche abbastanza “sbilenco” se vogliamo, ma certamente nessuna azione e nessuna scoperta è nata già perfetta, l’importante però è aver posto il primo passo in una direzione nuova e certamente il MAAM lo è. Quello è stato per me l’occasione di aver creato un monumento, credo che l’arte pubblica oggi abbia questo tipo di logica e di funzione cioè creare dei monumenti che siano delle proposte, delle proposte anche inconsapevoli, ma capaci di poter essere raccolte da una comunità e trasformate da questa in un monumento.
EM – מייַן האַרץ איז ליידיק ווי אַ שפּיגל, nome yiddish del tuo progetto – pellegrinaggio per mappare la democrazia in varie parti d’Europa. Dove finisce il documentarismo e inizia l’astrazione artistica?
GMT – Non ce ne è di documentarismo in questo progetto, nel senso che il ritratto che fa un artista non è mai un documentario, il ritratto che fa un artista è sempre qualcosa di magico da un certo punto di vista, magico perché è capace di mostrare quello che non è visibile. Qualche giorno fa parlavo de Il ritratto di Dorian Gray e dicevo che appunto è un elemento interessante su cui riflettere questo breve romanzo di Oscar Wilde, perché da una parte il ritratto che il pittore fa del protagonista è l’unica cosa che è capace di guardare, oltre l’aspetto esteriore, ma soprattutto c’è un altro aspetto importante: quel ritratto nei fatti uccide il male che c’è nel protagonista e facendo questo uccide il protagonista stesso, perché forse quel personaggio Dorian Gray è una persona che non si poteva salvare. Però guardarsi, dentro se stessi, e trovare l’impossibilità di sopportare il male, il male che abbiamo dentro, fa sì che in un certo qual modo iniziamo necessariamente a emendarlo, iniziamo necessariamente a cambiarlo, a combatterlo, e combattendolo combattiamo forse contro noi stessi, ma tutto questo è giusto. Non è mai esattamente un documentare quanto uno svelare, e le opere sono uno svelamento, quindi “Il mio cuore è vuoto come uno specchio” è una grande confessione di fronte a se stessi, e una confessione non è propriamente un documento, è un atto rivoluzionario perché è il primo passo per poter cambiare.
EM – Quale è stato per te un riferimento storico, letterario o cinematografico di grande impatto nello sviluppo della tua carriera artistica e personale?
GMT – È molto difficile rispondere a questa domanda, perché un artista vive di riferimenti costanti, sono sempre davanti ai propri occhi, a volte sono consapevoli a volte inconsapevoli, a volte qualcuno ti dice, ma non te ne sei reso conto, che in questo lavoro c’è tanto di questo o di quell’altro. È come chiedere a un astrofisico quale è la stella che lo affascina di più nella galassia, è impossibile, nel senso le stelle sono tutte perfette, tutte belle e quindi potrei fare centocinquanta mila nomi e tutti sarebbero importanti. Da quello che forse ha avuto un ruolo più strutturale, quello di creare la stessa immagine e idea di come si sarebbe dovuta fare un’opera d’arte, o anche soltanto di come ci si comporta su questa terra, a quello che ha avuto il contributo più piccolo dal punto di vista del volume, ma a volte è il dettaglio, mette un dettaglio nella tua formazione che è determinante, perché è nei dettagli che stanno le cose realmente determinanti. Quindi non rispondo, non posso rispondere a questa domanda, sarebbe troppo lunga, l’unica cosa che posso dire che sì, bisogna vivere, ma questo vale per gli artisti come anche per chi per chi l’arte la ama e basta, bisogna vivere costantemente in questa specie di grande processo trans-temporale, come il protagonista di Auto da fé di Canetti, che mette attorno a noi una squadra di amici, di persone che ci conoscono molto a fondo e che sono i grandi autori, grandi personaggi della letteratura. Dobbiamo essere sempre in dialogo con loro, perché loro sono depositari dei segreti che noi a volte non conosciamo, che a volte dimentichiamo. La fortuna dell’arte è quella di poterci mettere accanto uomini nati e vissuti centinaia di anni fa, e che pure sono ancora qui con noi presenti, attraverso le loro opere e attraverso la loro voce. Sinceramente io non vi trovo nessuna differenza, tra l’altro sto scrivendo un libro che parla proprio di questo, fra la voce di qualcuno che mi parla al presente dicendomi cosa pensa della politica e la voce di Platone che mi parla della Repubblica, non c’è differenza nel senso che sono due voci, le parole mi arrivano chiare in tutti e due i casi, sono io che faccio la differenza, se ho intenzione o non ho intenzione di seguire quel pensiero per cui ecco, non penso sia importante dire quali sono i riferimenti, ma la cosa veramente importante è continuare ad avere costantemente un rapporto con i propri riferimenti.