a cura di Alessandro Trabucco
“L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile”
Paul Klee, Confessione creatrice, 1920
Questa significativa frase del grandissimo artista svizzero, tra i principali protagonisti del decennio più rivoluzionario del Novecento, estratta dal breve saggio Confessione creatrice pubblicato quasi un secolo fa, è emblematica di un momento storico di straordinario ed irripetibile fermento creativo. Una manciata di anni caratterizzati da enormi stravolgimenti in tutti i campi della creatività umana, da quello riguardante più specificatamente la pittura, sino alla ricerca musicale (si pensi solo all’effetto sconvolgente che ebbe sul pubblico l’ascolto della Sagra della Primavera di Stravinsky alla sua prima esecuzione nel 1913, o alle teorie innovative della dodecafonia di Schönberg, solo di qualche anno dopo), per arrivare alle precoci innovazioni linguistiche avvenute nel campo di un’arte tutto sommato ancora giovane come la fotografia, realizzate da sperimentatori audaci tra i quali Man Ray, Christian Schad e Lazlo Moholy-Nagy.
Una frase eterna, che si addice proprio e soprattutto alla fotografia, da sempre accusata, sin dalla sua nascita avvenuta verso la metà dell’Ottocento, di essere troppo legata ad una pedissequa duplicazione della realtà.
Ecco, già verso i primi anni del Novecento questo pregiudizio era stato sconfessato dalle capacità innovative degli artisti citati (non definibili propriamente come fotografi puri), ma questo si è riverificato anche negli ultimi venti anni dello stesso secolo, con lo sviluppo tecnologico della fotografia digitale, durante i quali questa accusa è stata destituita definitivamente di qualsiasi fondamento.
Ciò che ci troviamo a guardare ora, osservando una fotografia, non è più detto che esista o che sia esistito veramente nella realtà e in un altro tempo, o meglio, la fotografia non assolve più al compito di documentare oggettivamente un luogo o un evento.
La composizione fotografica, nella quale è possibile riconoscere comunque uno spaccato della realtà esterna e non semplicemente l’ombra o la silhouette luminosa di un oggetto reale fissato direttamente dall’artista sulla carta emulsionata nella camera oscura (i rayogrammi di Man Ray per esempio, tecnica che bypassava la fase dello scatto sulla pellicola sensibile), assume una propria autonomia visiva rispetto a ciò che essa esprime, cioè “non ripete le cose visibili, ma rende visibile” un’immagine che prima non esisteva, se non nella mente del proprio artefice.
Ed è proprio ciò che avviene nelle immagini di Aqua Aura, paesaggi glaciali, deserti bianchi, terre desolate prive di una qualsiasi presenza vivente (umana, animale o vegetale) o in alcuni casi solo metaforica (rappresentata da un oggetto o da un residuo di un’attività manuale) esse stesse animate da una propria esistenza, di una propria “reale” vita interiore. Questa presenza nel mondo è però frutto di un’invenzione della mente, di un’effettiva manipolazione che avviene prima nell’insondabile regno dell’immaginazione umana e poi elaborata “fisicamente” nella virtualità elettronica dell’universo artificiale digitale.
Le immagini hanno dunque origine da una serie di suggestioni provocate dalla realtà esterna, la procedura esecutiva seguita da Aqua Aura è, inizialmente, quella canonica del fotografo di paesaggio, il quale percorre in lungo e in largo il globo terrestre alla ricerca di una propria personale interpretazione dello spettacolo naturale che gli si pone di fronte alla vista, realizzando un numero imprecisato (perché non quantificabile) di scatti; nel lavoro di Aqua Aura questi scatti subiscono successivamente dei cambiamenti significativi, la selezione accurata delle immagini porta alla vera e propria creazione di ibridi visivi, singole rappresentazioni assemblate al computer e composte da parti prelevate da differenti scatti, a formare una nuova, inedita e, soprattutto, inesistente realtà.
E’ precisamente ciò che afferma Paul Klee: “rendere visibile” ciò che prima non “era esistente” e che ora finalmente può prendere forma grazie al potere demiurgico dell’artista, capace di infondere energia vitale ad una nuova “creatura”, facendovi scaturire al suo interno la propria scintilla creatrice.
La mostra è articolata sui due piani della galleria (terreno e sotterraneo) secondo una sequenza studiata al fine di accompagnare il visitatore alla scoperta dei suggestivi paesaggi creati da Aqua Aura, seguendo un itinerario che disvela man mano le particolari caratteristiche di ciascuna immagine, ma soprattutto le atmosfere che nell’insieme esse sanno evocare.
Il sentimento del sublime, che ispira la visione degli ambienti glaciali, con i loro forti contrasti tra il bianco più luminoso e il nero più profondo, e i vapori, che richiamano luoghi lontani nello spazio e nel tempo, eventi naturali che affascinano lo sguardo e lo trasportano in silenziose ed immobili visioni romantiche.
Uno sguardo che viene poi stimolato anche dalla presenza di un elemento installativo modulare ed apparentemente estraneo al contesto, che introduce, soprattutto nelle opere esposte nel piano sotterraneo, un aspetto destabilizzante ed alternativo ad una visione esclusivamente statica e contemplativa.
Con questo particolare oggetto Aqua Aura crea un’ambientazione voyeuristica, spingendo lo spettatore ad avvicinarsi alle singole immagini scostando una rossa e scintillante tenda a filo che ne impedisce un’agevole e completa visuale, un’azione di nascondimento col preciso intento di far instaurare con esse una sorta di intimità visiva, di incontro ravvicinato e personale.
L’aspetto onirico che caratterizza queste fotografie è un chiaro e concreto segnale della loro genesi formale avvenuta a livello mentale; ai paesaggi dall’atmosfera romantica l’artista inserisce elementi architettonici o presenze stranianti che ne aumentano notevolmente l’effetto di disorientamento visivo.
Inaugurazione:
Sabato 23.02.2013, h 18.00
Apertura:
Lunedì al Venerdì h 16.30 – 19.30
Sabato: 11.00 -12.30 e 16.30 – 19.30
Martedì chiuso
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