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“Grazie” è femminile e plurale.
Il suo singolare è “grazia”, e qui acquista un’altra valenza, di tipo teologico: è la Grazia che ci salverà, di tipo comportamentale: si muoveva con tanta grazia, di tipo giuridico: le fu concessa la Grazia.
Un suo purale potrebbe essere: era tra le sue grazie, che vorrebbe dire che gli voleva bene.
È, grazie, una parola della relazione e dello scambio: cosa si dice Giovannino alla zia che ti ha dato le caramelle?
– Grazie zia.
È una parola dell’affetto.
Ma rischia di diventare un “intercalare del discorso” che si priva a poco a poco di significato. Rischia di diventare come: cordiali saluti alla fine di una lettera che vale come il punto. O come il: come stai? negli incontri di cui, poi, non si fa caso alla risposta.
Nei rapporti interpersonali, paritetici o nell’intimità spesso grazie è detto sussurrato, più che dalla bocca è detto dagli occhi.
Il “prego” (suo fratellino minore) è superfluo.
Anche prego è una bella strana parola. È singolare e maschile e, al di fuori dallo scambio Grazie – Prego, ha ben tutt’altro significato.
Che dire quindi?
Così inciso (scolpito con una certa forza) nella pietra che per decenni è stata il banco (maschile) o, se vogliamo, la cassa (femminile) della libreria Ars mi fa un certo effetto!
E allora, Grazie Giovanni, grazie a te.
… e grazie a voi.