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    TB BOARD | INTERVISTA ALL'ARTISTA - ALICE TIPPIT
    TB BOARD | INTERVISTA ALL'ARTISTA - ALICE TIPPIT
    [= TB ===== BOARD === INTERVISTA == ALL == ARTISTA ===== ALICE ==== TIPPIT ==]
    Mine

    Oil on canvas

    18 x 15 inches

    2019

    The photo credit is Evan Jenkins


        [== LINK ==]

    INTERVISTA A ALICE TIPPIT
    Claudia Santeroni

    Claudia Santeroni – A tutti gli artisti domandiamo di dare una brevissima descrizione della vostra ricerca, in modo da introdurre anche coloro che non vi conoscono al lavoro.

    Alice Tippit – La mia pratica artistica è incentrata sul linguaggio e sulla mutevolezza di significato. Mi interessa il linguaggio visivo perché permette un’esperienza più aperta e diretta rispetto al linguaggio scritto. Le mie immagini appaiono semplici – l’uso limitato del colore e le forme appiattite sono dei riferimenti al design grafico, così come ad altre forme di comunicazione visiva – ma in realtà ho adottato strategie per aumentare la loro ambiguità a livello contenutistico. Ne mantengo la familiarità – spesso le forme sono riconoscibili -, ma non le definisco più del necessario. La mancanza di informazioni descrittive aumenta il loro potere connotativo. Ho altri trucchi: ridimensionando la scala delle figure, le relazioni – talvolta inquietanti – che si creano tra loro e lo sfondo e le scelte cromatiche inusuali sono considerazioni che mi vengono in mente direttamente mentre sto lavorando all’immagine.

    CS – Guardando le tue opere mi tornano in mente le silhouette di Enzo Mari, da cui ti però ti discosti in quanto prediligi l’ambiguità rispetto al loro essere immediatamente leggibili.

    Quali sono i tuoi riferimenti principali al di fuori dell’universo dell’arte contemporanea?

    AT – Sì, credo che la forza delle sue silhouette risieda nella loro semplicità. Enzo Mari rimuove i dettagli conservando solo ciò che reputa essenziale per il riconoscimento dell’immagine, riuscendo comunque a non mettere mai in dubbio ciò che si sta vedendo. È molto generoso; credo che sia questa la fonte del loro fascino. Io stessa riduco le informazioni necessarie all’identificazione dell’immagine, ma poi, attraverso i mezzi che ho menzionato, la “complico” al fine di arrivare a ciò che mi piace pensare come un’immagine in cui è presente tutto e niente, un’immagine fatta di sì e no.

    Sono sempre stata una lettrice, con una preferenza per i racconti brevi e la poesia. Spesso le immagini mi vengono in mente proprio mentre leggo, allora cerco di metterle su carta facendole poi diventare anche dei quadri. Lydia Davis è una delle mie autrici preferite, che esercita su di me una grande influenza. I suoi saggi sulla pratica della scrittura sono meravigliosi. Non dovrebbe sorprendere che io trovi convincente la concisione dei suoi racconti.

    Joan Didion mi è stata di conforto durante la quarantena. In realtà mi reputo onnivora in ambito culturale: tengo buona qualsiasi cosa, perché non si sa mai cosa potrà essermi utile in futuro.

    CS – Non ho mai visto le tue opere dal vivo, e mi ha stupita leggere che viste da vicino sono materiche, perché da schermo appaiono invece campiture neutre. Quale è il tuo approccio verso la documentazione del tuo lavoro, e come vivi l’alterazione tra la fruizione virtuale e quella dal vivo?

    AT – Una buona documentazione è d’aiuto e, sperabilmente, le persone vanno a vedere le opere di persona. La qualità della superficie non è attestabile attraverso le immagini digitali, soprattutto quando si parla di Instagram. I miei quadri si presentano sicuramente molto diversamente se visti di persona. C’è una gran variazione nei campi di colore: si vedono i segni del pennello, non che questo faccia sì che risultino – brutalmente parlando – incompiuti rispetto alla versione digitale, semplicemente la mia mano è – giustamente – evidente. Essa dimostra che sono state generate da qualcuno piuttosto che da qualcosa. Di conseguenza, l’esperienza di persona è più lenta ed empatica di quanto lo sarebbe se fossero realizzati attraverso una sorta di processo meccanizzato e ripetibile, come la stampa. Anche se per me è importante che appaiano come il lavoro di un individuo che manipola le leve del linguaggio visivo, non credo che il lavoro vada in pezzi se non fa parte di questa equazione. L’immagine farà comunque il suo lavoro, sia che siano presenti tracce visibili di fabbricazione sia che non lo siano.

    CS – Le tue opere sono costellate di riferimenti all’universo femminile, spesso in relazione all’ambiente naturale. L’immagine che hai scelto per noi ne è un esempio, così come il testo che hai scritto.

    C’è un motivo particolare per cui hai optato proprio per quel lavoro?

    AT – La storia e i generi della pittura stessa funzionano come una sorta di biblioteca a cui posso fare riferimento. Potrei attingere e creare degli incroci tra natura morta e ritrattistica, per esempio, o – come quella che ho scelto per la vostra newsletter – con il paesaggio e la pittura figurativa. In molte culture è presente la credenza che allinea le donne con la terra. Penso anche al blasone letterario, un espediente poetico che mette a confronto gli attributi dell’amante – di solito femminili – con oggetti belli e rari o fenomeni naturali. Il paragone di per sé non è di grande interesse per me, lo è piuttosto la rima – poeticamente parlando – che utilizza forme che rimandano l’una all’altra al fine di riunire i riferimenti a creazione di una dissonanza pittorica che aiuta a resistere a un’interpretazione immediata.

    CS – Una curiosità: c’è qualcosa che ti è essenziale, mentre lavori? Un sottofondo musicale, il silenzio, la presenza di un animale… è bello immaginare gli artisti immersi nel loro studio.

    AT – Preferisco il silenzio, anche se a volte ascolto della musica o dei podcast, dipende dal mio stato d’animo. Delle volte voglio tenermi la mente occupata mentre lavoro, altre, più frequenti, preferisco che mi spinga alla deriva.

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